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9 aprile 2024
Spesa sanitaria delle famiglie nel 2022: spesi € 64 in più rispetto all’anno precedente e oltre € 100 al centro-sud. 4,2 milioni di famiglie hanno limitato le spese per la salute, in particolare al Sud. Oltre 1,9 milioni di persone hanno rinunciato a prestazioni sanitarie per ragioni economiche. A rischio la salute di oltre 2,1 milioni di famiglie indigenti

Nel 2022 la spesa sanitaria out-of-pocket, ovvero quella sostenuta direttamente dalle famiglie, ammonta a quasi € 37 miliardi: in quell’anno oltre 25,2 milioni di famiglie italiane in media hanno speso per la salute € 1.362, oltre € 64 euro in più rispetto al 2021. «Considerato il rilevante impatto sui bilanci familiari della spesa sanitaria out-of-pocket – dichiara Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE – e tenuto conto di un contesto caratterizzato dalla grave crisi di sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e dall’aumento della povertà assoluta, abbiamo analizzato vari indicatori per misurare le dimensioni di questo preoccupante fenomeno, utilizzando esclusivamente i dati pubblicati da ISTAT. L’obiettivo è quello di fornire una base oggettiva per il dibattito pubblico e le decisioni politiche, oltre che prevenire strumentalizzazioni basate sull’enfasi posta su singoli dati».

Spesa sanitaria out-of-pocket. Secondo il sistema dei conti ISTAT-SHA, nel 2022 (ultimo anno disponibile) la spesa sanitaria totale in Italia ammonta a € 171.867 milioni: € 130.364 milioni di spesa pubblica (75,9%) e € 41.503 milioni di spesa privata, di cui € 36.835 milioni (21,4%) out-of-pocket e € 4.668 milioni (2,7%) intermediata da fondi sanitari e assicurazioni (figura 1). «Se da un lato la spesa out-of-pocket supera la soglia del 15% – commenta il Presidente – concretizzando di fatto, secondo i parametri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, un sistema sanitario misto, va rilevato che quasi l’89% della spesa privata è a carico delle famiglie». Complessivamente, nel periodo 2012-2022 la spesa out-of-pocket è aumentata in media dell’1,6% annuo, per un totale di € 5.326 milioni in 10 anni (figura 2). «Un dato – spiega il Presidente – che documenta solo in parte l’impatto del progressivo indebolimento del SSN, perché non tiene conto di altri indicatori. Infatti, la limitazione delle spese per la salute, l’indisponibilità economica temporanea e, soprattutto, la rinuncia alle cure sono fenomeni che, pur non aumentando la spesa out-of-pocket, contribuiscono a peggiorare la salute delle persone».

Impatto della spesa per la salute sulle famiglie. Secondo l’indagine ISTAT sui consumi delle famiglie, nel 2022 la media nazionale delle spese per la salute è pari a € 1.362,24 a famiglia, in aumento rispetto ai € 1.298,04 del 2021. «Ad eccezione del Nord-Ovest – spiega il Presidente – dove si registra una lieve riduzione, l’aumento delle spese per la salute nel 2022 riguarda tutte le macro-aree del Paese: in particolare al Centro e al Sud si registrano aumenti di oltre € 100 a famiglia» (tabella 1). I dati regionali restituiscono, invece, un quadro molto eterogeneo. In dettaglio, dal 2021 al 2022 i maggiori incrementi si rilevano in Puglia con +26,1% (€ 910,20 vs € 1.147,80) e in Toscana con +19,3% (€ 1.178,40 vs € 1.405,92). Altre Regioni, invece, hanno registrato una diminuzione dal 2021 al 2022: la Valle d’Aosta del 24,3% (€ 1.834,08 vs € 1.387,56) e la Calabria che segna un -15,3% (€ 1.060,92 vs € 899,04) (tabella 2). «L’interpretazione dei dati regionali – spiega Cartabellotta – non è univoca perché la spesa delle famiglie per la salute è influenzata da numerose variabili: la qualità e l’accessibilità dei servizi sanitari pubblici, la capacità di spesa delle famiglie, il consumismo sanitario e, in misura minore, l’eventuale rimborso della spesa da parte di assicurazioni e fondi sanitari». Ad esempio, il fatto che nel 2022 la spesa per la salute delle famiglie calabresi e marchigiane rimanga al di sotto di € 1.000 è verosimilmente imputabile a motivazioni differenti. Analogamente, nelle prime posizioni per spesa delle famiglie si collocano le Regioni più ricche e/o con più elevata qualità dei servizi sanitari, documentando, aggiunge il Presidente «che la spesa out-of-pocket non è un indicatore affidabile per valutare la riduzione delle tutele pubbliche; di conseguenza, lasciare che il dibattito pubblico si concentri solo su questo dato restituisce un quadro distorto della realtà, sia perché alcune famiglie spendono per servizi e prestazioni inutili, sia perché altre non riescono a spendere per bisogni reali di salute a causa di difficoltà economiche».

Limitazione delle spese per la salute. Secondo i dati ISTAT sul cambiamento delle abitudini di spesa nel 2022 il 16,7% delle famiglie dichiarano di avere limitato la spesa per visite mediche e accertamenti periodici preventivi in quantità e/o qualità. Se il Nord-Est (10,6%), il Nord-Ovest (12,8%) e il Centro (14,6%) si trovano sotto la media nazionale, tutto il Mezzogiorno si colloca al di sopra: di poco le Isole (18,5%), di oltre 10 punti percentuali il Sud (28,7%), in pratica più di 1 famiglia su 4 (figura 3).  «Un cambiamento nelle abitudini di spesa – commenta Cartabellotta – che ovviamente argina la spesa out-of-pocket: infatti, proiettando sulla popolazione i dati dell’indagine campionaria ISTAT, sarebbero oltre 4,2 milioni le famiglie che nel 2022 hanno limitato le spesa per la salute».

Indisponibilità economiche temporanee delle spese per la salute. Risultati sovrapponibili, seppur in percentuali ridotte, vengono restituiti dall’indagine ISTAT sulle condizioni di vita. Il 4,2% delle famiglie dichiara di non disporre di soldi in alcuni periodi dell’anno per far fronte a spese relative alle malattie. Sono al di sotto della media nazionale il Nord-Est (2%), il Centro (3,1%) e il Nord-Ovest (3,2%), mentre il Mezzogiorno si colloca al di sopra della media nazionale: rispettivamente le Isole al 5,3% e il Sud all’8%, un dato quasi doppio rispetto alla media nazionale (figura 4).  «Anche questo fenomeno – spiega il Presidente – contribuisce a contenere la spesa out-of-pocket: infatti, proiettando sulla popolazione i dati dell’indagine campionaria ISTAT, oltre 1 milione di famiglie in alcuni periodi del 2022 non sono riuscite a fronteggiare le spese per la salute per indisponibilità economica».

Rinunce a prestazioni sanitarie. I dati forniti dal Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile (BES) 2022, realizzato in collaborazione tra ISTAT e CNEL documentano che la percentuale di persone che rinunciano a prestazioni sanitarie – dopo i dati drammatici del periodo pandemico (9,6% nel 2020 e 11,1% nel 2021) – nel 2022 si è attestata al 7%, percentuale comunque maggiore a quella pre-pandemica del 2019 (6,3%). Si tratta di oltre 4,13 milioni di persone che, secondo la definizione ISTAT, spiega Cartabellotta «dichiarano di aver rinunciato nell’ultimo anno a visite specialistiche o esami diagnostici pur avendone bisogno, per uno o più motivi: problemi economici (impossibilità di pagare, costo eccessivo), difficoltà di accesso (struttura lontana, mancanza di trasporti, orari scomodi), lunghi tempi di attesa». In particolare, nel 2022 ha rinunciato alle cure per motivi economici il 3,2% della popolazione, ovvero quasi 1,9 milioni di persone. «In ogni caso dal 2018 – commenta Cartabellotta – fatta eccezione per il biennio 2020-2021, la percentuale di persone che hanno rinunciato alle cure rimane sostanzialmente stabile, anche se le motivazioni possono mutare negli anni». La distribuzione per aree geografiche non documenta grandi differenze rispetto alla media nazionale, dimostrando che si tratta di un problema diffuso: Nord-Ovest 7,5%, Nord-Est 6,4%, Centro 7%, Sud 6,2%, Isole 8,5%. Anche a livello regionale le differenze sono modeste, fatta eccezione per i dati estremi non sempre di facile interpretazione: da un lato Sardegna (12,3%) e Piemonte (9,6%), dall’altro la Provincia Autonoma di Bolzano e la Campania (4,7%). (figura 5).

Povertà assoluta. «L’impatto sulla salute individuale e collettiva dell’indebolimento della sanità pubblica – afferma Cartabellotta – non può limitarsi a valutare gli indicatori relativi alla spesa delle famiglie, ma deve anche considerare il livello di povertà assoluta della popolazione». Secondo le statistiche ISTAT sulla povertà, tra il 2021 e il 2022 l’incidenza della povertà assoluta per le famiglie in Italia – ovvero il rapporto tra le famiglie con spesa sotto la soglia di povertà e il totale delle famiglie residenti – è salita dal 7,7% al 8,3%, ovvero quasi 2,1 milioni di famiglie. Il Nord-Est ha registrato l’incremento più significativo, passando dal 7,1% al 7,9%, seguito dal Sud con un aumento dal 10,5% all'11,2% e dalle Isole con un incremento dal 9,2% al 9,8%. Anche se il Nord-Ovest e il Centro hanno registrato un aumento più contenuto (0,4%), il fenomeno della povertà assoluta è diffuso su tutto il territorio nazionale (tabella 3). E le stime preliminari ISTAT per l’anno 2023 documentano un ulteriore incremento della povertà assoluta delle famiglie: dall’8,3% all’8,5%. «È evidente – commenta Cartabellotta – che l’aumento del numero di famiglie che vivono sotto la soglia della povertà assoluta avrà un impatto residuale sulla spesa out-of-pocket, ma aumenterà la rinuncia alle cure, condizionando il peggioramento della salute e la riduzione dell’aspettativa di vita delle persone più povere del Paese».

«Dalle nostre analisi – conclude Cartabellotta – emergono tre considerazioni. Innanzitutto l’entità della spesa out-of-pocket, seppur in lieve e costante aumento, sottostima le mancate tutele pubbliche perché viene arginata da fenomeni conseguenti alle difficoltà economiche delle famiglie: la limitazione delle spese per la salute, l’indisponibilità economica temporanea e la rinuncia alle cure. In secondo luogo, questi fenomeni sono molto più frequenti nelle Regioni del Mezzogiorno, proprio quelle dove l’erogazione dei Livelli Essenziali di Assistenza è inadeguata: di conseguenza, l’insufficiente offerta pubblica di servizi sanitari associata alla minore capacità di spesa delle famiglie del Sud condiziona negativamente lo stato di salute e l’aspettativa di vita alla nascita, un indicatore che vede tutte le Regioni del Mezzogiorno al di sotto della media nazionale. Infine, lo status di povertà assoluta che coinvolge oggi più di due milioni di famiglie richiede urgenti politiche di contrasto alla povertà, non solo per garantire un tenore di vita dignitoso a tutte le persone, ma anche perché le diseguaglianze sociali nell’accesso alle cure e l’impossibilità di far fronte ai bisogni di salute con risorse proprie rischiano di compromettere la salute e la vita dei più poveri, in particolare nel Mezzogiorno. Dove l’impatto sanitario, economico e sociale senza precedenti rischia di peggiorare ulteriormente con l’autonomia differenziata».


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26 marzo 2024
Indagine GIMBE nelle scuole superiori: un giovane su 3 non conosce il suo medico di famiglia, idee poco chiare su screening oncologici. Il progetto “La Salute tiene banco” guida gli studenti al corretto uso del Servizio Sanitario Nazionale

La battaglia in difesa del diritto costituzionale alla tutela della salute – dichiara Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE – deve coinvolgere anche i più giovani, a partire dall’età scolastica: con il progetto “La Salute tiene banco” intendiamo fornire ai nostri ragazzi gli strumenti indispensabili per crescere quali cittadini consapevoli dei propri diritti e capaci di preservare la propria salute».

«Nel gennaio 2023 la Fondazione GIMBE ha dato il via a questo progetto – spiega Elena Cottafava, Segretaria Generale della Fondazione e responsabile de “La Salute tiene banco” – che mira a diffondere tra i ragazzi l’approccio globale alla salute, a migliorare l’alfabetizzazione sanitaria, a fornire gli strumenti per contrastare le fake news sulla salute e conoscere ed utilizzare in maniera consapevole il Servizio Sanitario Nazionale». Ad oggi hanno partecipato agli incontri oltre mille studenti e studentesse degli istituti superiori di Bologna che, mediante quiz interattivi, hanno risposto a domande sul funzionamento del Servizio Sanitario Nazionale, oltre che sulle attività di prevenzione e sulle prestazioni garantite alla popolazione, al fine di disporre di dati oggettivi su quanto i giovani conoscano realmente la sanità pubblica.

Metodi. Nel periodo febbraio 2023-febbraio 2024 si sono tenuti 8 incontri che hanno coinvolto 775 studenti degli ultimi anni delle scuole superiori. Durante gli incontri tramite la piattaforma Mentimeter è stata condotta una survey di 10 domande, alla quale hanno risposto un numero di studenti compreso tra 229 e 400 (margine di errore compreso tra +/-3,4% e +/-5,4%).

Risultati. Si riportano di seguito le risposte più significative, rimandando all’appendice per il report completo della survey.

  • Quali sono i protagonisti della salute? Nell’89,2% dei casi gli studenti hanno correttamente individuato che i protagonisti della salute, secondo la moderna visione One Health, sono uomini, animali e ambiente. «Un dato – commenta Cartabellotta – che dimostra quanto la drammatica esperienza della pandemia COVID-19 abbia sensibilizzato le nuove generazioni all’approccio globale alla salute: dove quella dell’uomo, degli animali e dell’ambiente sono strettamente correlate e interdipendenti».
  • È presente in tutto il mondo un modello di Servizio Sanitario Nazionale analogo al nostro? Per l’87,5% in nessun altro paese del mondo esiste un modello come il nostro Servizio Sanitario Nazionale. «La consapevolezza dei giovani sull’unicità di un modello di SSN basato su princìpi di universalismo, equità e uguaglianza e finanziato con la fiscalità generale – commenta il Presidente – ci fa comprendere quanto questo pilastro della nostra democrazia sia radicato anche nelle menti dei più giovani».
  • Conoscete il vostro Medico di Medicina Generale (MMG)? Uno studente su 3 non ha mai visto il proprio medico di famiglia, che rappresenta il primo “punto di accesso” al SSN. «Il fatto che un giovane su tre non conosca il proprio MMG – commenta Cartabellotta – invita a riflettere sull’attuale modello di passaggio dal pediatra di libera scelta al MMG. Un passaggio esclusivamente “burocratico”, dove non esiste alcuno scambio di informazioni tra chi ha seguito prima il bambino e poi l’adolescente (il pediatra) e chi deve assisterlo dai 14 anni in poi (il MMG). Peraltro in un momento particolarmente delicato come quello della fase adolescenziale».
  • L'equità di accesso ai LEA è garantita allo stesso modo da tutte le regioni? Il 77,3% degli studenti è consapevole dell’esistenza di diseguaglianze di accesso dei cittadini alle prestazioni sanitarie tra le diverse regioni. «Qui – commenta Cartabellotta – è la parte “mezza vuota del bicchiere” a stupire un po’: quasi uno studente su 4 non è consapevole delle diseguaglianze regionali in sanità in termini di accesso ai servizi e alle prestazioni che dovrebbero essere garantite uniformemente su tutto il territorio nazionale».
  • Chi ha ricevuto prescrizione di antibiotici per infezioni delle alte vie respiratorie? Il 45% degli studenti dichiara “più volte”, il 21,5% “una volta”, il 33,5% “mai”. «Seppur con i limiti insiti nella domanda che non definisce un arco temporale – commenta Cartabellotta – emerge un potenziale utilizzo inappropriato degli antibiotici nelle infezioni delle alte vie respiratorie nel campione esaminato, visto che oltre due terzi dichiarano di avere ricevuto una prescrizione almeno una volta».
  • Quali sono i 3 programmi di screening oncologici offerti gratuitamente dal SSN? Solo il 56,9% degli studenti ha individuato correttamente i tumori per i quali sono previsti programmi di screening nazionali inclusi nei LEA, ovvero mammella, cervice uterina, colon-retto. «Se è vero che il campione ha un’età anagrafica ancora lontana dagli screening oncologici – commenta Cartabellotta – queste lacune rivelano che molto può e deve essere fatto a livello di alfabetizzazione sanitaria, al fine di aumentare l’aderenza della popolazione agli unici tre screening oncologici efficaci nel ridurre la mortalità tumore-specifica».
  • Fare screening per diagnosticare un tumore il più precocemente possibile è sempre un vantaggio? Il 56,7% degli studenti risponde erroneamente che è sempre un vantaggio diagnosticare il più precocemente possibile un tumore.  «Purtroppo – commenta Cartabellotta – i messaggi consumistici sulla prevenzione medicalizzata, ovvero che sottoporsi a più test diagnostici riduce la probabilità di ammalarsi, finiscono per determinare un utilizzo inappropriato dei servizi sanitari, oltre che generare spreco di risorse e rischi conseguenti ai fenomeni di sovra-diagnosi e sovra-trattamento».

«I risultati della survey – chiosa Cartabellotta – restituiscono un quadro di luci e ombre. I giovani sono ben consapevoli del valore unico del SSN e delle interazioni tra salute dell’uomo, degli animali e dell’ambiente e, in larga parte, delle diseguaglianze regionali in sanità. Conoscono molto meno gli screening oncologici offerti dal SSN e oltre la metà vive nella convinzione che fare più test di screening per rappresenti sempre e comunque un vantaggio. I dati forniscono poi indicazioni utili rispetto alla potenziale inappropriatezza prescrittiva degli antibiotici nelle infezioni delle alte vie respiratorie e sulle lacune del passaggio di consegne tra pediatra medico di famiglia. In sintesi dimostrano la necessità di trasferire ai giovani sin dall’età scolastica la cultura della prevenzione e della promozione alla salute e gli strumenti per un utilizzo consapevole del Servizio Sanitario Nazionale».

«Per colmare questi gap di conoscenze – conclude Cottafava – vogliamo espandere il programma “La Salute tiene banco” alle scuole di tutto il Paese: per farlo abbiamo lanciato una campagna di crowdfunding, attiva fino al 2 maggio. Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti: insieme possiamo crescere giovani cittadini consapevoli dei loro diritti per tutelare il bene più prezioso che hanno, la salute».

La campagna di crowdfunding a sostegno del progetto è attiva fino al 2 maggio sulla piattaforma GINGER: https://www.ideaginger.it/progetti/la-salute-tiene-banco.html Attenzione: la nostra è una campagna “O tutto o niente!”, se non raggiungeremo l’obiettivo tutte le donazioni verranno restituite

 

 

APPENDICE. RISULTATI ANALITICI DELLA SURVEY CONDOTTA TRA I PARTECIPANTI DEGLI INCONTRI DEL PROGETTO “LA SALUTE TIENE BANCO” (AA.SS. 2022/2023 E 2023/2024)

 

Quali sono i protagonisti della salute?

N.

%

 

Uomini

32

8,0%

 

Uomini e animali

11

2,8%

 

Uomini, animali e ambiente

357

89,2%

 

N. rispondenti: 400

 

È presente in tutto il mondo un modello di Servizio Sanitario Nazionale analogo al nostro?

N.

%

 

No

281

87,5%

 

40

12,5%

 

N. rispondenti: 321

 

A quale livello vengono definiti i principi fondamentali dell’assistenza e i Livelli Essenziali di Assistenza?

N.

%

 

Livello locale

32

9,7%

 

Livello nazionale

259

78,5%

 

Livello regionale

39

11,8%

 

N. rispondenti: 330

 

A quale livello vengono erogati i Livelli Essenziali di Assistenza?

N.

%

 

Livello locale

68

21,7%

 

Livello nazionale

63

20,1%

 

Livello regionale

183

58,3%

 

N. rispondenti: 314

 

A quale livello avvengono la programmazione ed organizzazione dei servizi sanitari?

N.

%

 

Livello locale

94

30,7%

 

Livello nazionale

61

19,9%

 

Livello regionale

151

49,3%

 

N. rispondenti: 306

 

Conoscete il vostro Medico di Medicina Generale?

N.

%

 

No

109

33,7%

 

214

66,3%

 

N. rispondenti: 323

 

L'equità di accesso ai LEA è garantita allo stesso modo da tutte le regioni?

N.

%

 

No

177

77,3%

 

52

22,7%

 

N. rispondenti: 229

 

Chi ha ricevuto prescrizione di antibiotici per infezioni delle alte vie respiratorie?

N.

%

 

Mai

87

33,5%

 

Più volte

117

45,0%

 

Una volta

56

21,5%

 

N. rispondenti: 260

 

Quali sono i 3 screening oncologici offerti gratuitamente nei LEA?

N.

%

 

Mammella, colon-retto e cervice uterina

141

56,9%

 

Mammella, polmone e fegato

36

14,5%

 

Mammella, tiroide e vescica

71

28,6%

 

N. rispondenti: 248

 

Fare screening per diagnosticare un tumore il più precocemente possibile è sempre un vantaggio?

N.

%

 

No

100

43,3%

 

131

56,7%

 

N. rispondenti: 231

 


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21 marzo 2024
L’autonomia differenziata porterà al collasso la sanità delle regioni del Sud, già in fondo a tutte le classifiche per cure essenziali e aspettativa di vita. Al Nord rischio sovraccarico da mobilità sanitaria. Eliminare la materia “tutela della Salute” dalle maggiori autonomie

Il DdL Calderoli sull’autonomia differenziata, approvato al Senato e ora in discussione alla Camera potrebbe segnare un punto di non ritorno nell’equità dell’assistenza sanitaria tra le Regioni italiane in un contesto caratterizzato dalla grave crisi di sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale (SSN).

La Fondazione GIMBE ha pubblicato il Report “L’autonomia differenziata in sanità, per esaminare le criticità del testo del DdL e analizzare il potenziale impatto sul SSN delle maggiori autonomie richieste dalle Regioni in materia di “tutela della salute”.

«Le nostre analisi – dichiara Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE – documentano dal 2010 enormi divari in ambito sanitario tra il Nord e il Sud del Paese e sollevano preoccupazioni riguardo all'equità di accesso alle cure». In dettaglio:

  • Dagli adempimenti ai Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) - le prestazioni sanitarie che le Regioni devono garantire gratuitamente o previo il pagamento del ticket - valutati con la griglia LEA nel decennio 2010-2019 emerge che nelle prime 10 posizioni non c’è nessuna Regione del Sud e che le tre Regioni che hanno richiesto maggiori autonomie si collocano nella top five della classifica (figura 1).


    E con il Nuovo Sistema di Garanzia che ha sostituito la griglia LEA, nel 2020 delle 11 Regioni adempienti l’unica del Sud è la Puglia, a cui nel 2021 si aggiungono Abruzzo e Basilicata. E sia nel 2020 che nel 2021 le Regioni del Sud sono ultime tra quelle adempienti (figure 2 e 3).

     

  • Nel 2022 a fronte di un’aspettativa di vita alla nascita di 82,6 anni (media nazionale), si registrano notevoli differenze regionali: dagli 84,2 anni della Provincia autonoma di Trento agli 81 anni della Campania, un gap ben 3,2 anni. E in tutte le 8 Regioni del Mezzogiorno l’aspettativa di vita è inferiore alla media nazionale, spia indiretta della bassa qualità dei servizi sanitari regionali (figura 4).

  • L’analisi della mobilità sanitaria conferma la forte capacità attrattiva delle Regioni del Nord e la fuga da quelle del Centro-Sud: infatti, nel periodo 2010-2021 tutte le Regioni del Sud ad eccezione del Molise (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia) hanno accumulato complessivamente un saldo negativo pari a € 13,2 miliardi, mentre sul podio per saldo attivo si trovano proprio le tre Regioni che hanno già richiesto le maggiori autonomie (figura 5).


    Nel 2021 su € 4,25 miliardi di valore della mobilità sanitaria, il 93,3% della mobilità attiva si concentra in Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, mentre il 76,9% del saldo passivo grava su Calabria, Campania, Sicilia, Lazio, Puglia e Abruzzo (figura 6).

  • Il raggiungimento degli obiettivi della Missione Salute del PNRR è rallentato dalle scarse performance delle Regioni del Centro-Sud: dagli over 65 da assistere in ADI con abnormi obiettivi di incremento di circa il 300% per Campania, Lazio, Puglia e oltre il 400% per la Calabria (tabella 1), all’attuazione del fascicolo sanitario elettronico con percentuali di attivazione e alimentazione molto basse; dal numero di strutture da edificare (Case della Comunità, Centrali Operative Territoriali, Ospedali di Comunità) (tabella 2), alla dotazione di personale infermieristico (figura 7), ben al di sotto della media nazionale soprattutto in Campania, Sicilia e Calabria.

     

     

«Complessivamente questi dati – spiega Cartabellotta – confermano che in sanità, nonostante la definizione dei LEA nel 2001, il loro monitoraggio annuale e l’utilizzo da parte dello Stato di strumenti quali Piani di rientro e commissariamenti, persistono inaccettabili diseguaglianze tra i 21 sistemi sanitari regionali. Siamo oggi davanti ad una “frattura strutturale” Nord-Sud che compromette qualità dei servizi sanitari, equità di accesso, esiti di salute e aspettativa di vita alla nascita, alimentando un imponente flusso di mobilità sanitaria dal Sud al Nord. Di conseguenza, l’attuazione di maggiori autonomie in sanità, richieste proprio dalle Regioni con le migliori performance sanitarie e maggior capacità di attrazione, non potrà che amplificare le diseguaglianze già esistenti».

«Considerato che la richiesta della Fondazione GIMBE di espungere la tutela della salute dalle materie su cui le Regioni possono richiedere maggiori autonomie sinora non è stata presa in considerazione dal Governo, né sostenuta con vigore e costanza dalle forze di opposizione – continua il Presidente – è cruciale ribadire le motivazioni che portano a sostenere questa posizione. Perché non è ammissibile che venga violato il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini nell’esercizio del diritto alla tutela della salute, legittimando normativamente il divario tra Nord e Sud».

  • Il SSN attraversa una gravissima crisi di sostenibilità e il sotto-finanziamento costringe anche le Regioni virtuose del Nord a tagliare i servizi e/o ad aumentare le imposte per evitare il Piano di rientro. «E se da un lato ­non si intravedono risorse né per rilanciare il finanziamento pubblico della sanità, né tantomeno per colmare le diseguaglianze regionali – spiega Cartabellotta – dall’altro con l’autonomia differenziata le Regioni potranno trattenere il gettito fiscale, che non verrebbe più redistribuito su base nazionale, impoverendo ulteriormente il Mezzogiorno».
  • Il CLEP, ovvero il comitato istituito per determinare i livelli essenziali delle prestazioni non ha ritenuto necessario definirli per la materia “tutela della salute” in quanto esistono già i LEA, ai quali tuttavia non corrisponde alcun fabbisogno finanziario. «Una pericolosissima scorciatoia ­– commenta il Presidente – rispetto alla necessità di garantire i LEP secondo quanto previsto dalla Carta Costituzionale: infatti, senza definire, finanziare e garantire in maniera uniforme i LEP in tutto il territorio nazionale è impossibile ridurre le diseguaglianze tra Regioni».
  • In sanità il gap tra Nord e Sud configura ormai una “frattura strutturale”, come dimostrano sia i dati sugli adempimenti ai LEA sia quelli sulla mobilità sanitaria. Alla maggior parte dei residenti al Sud non sono garantiti nemmeno i LEA, alimentando il fenomeno della mobilità sanitaria verso le Regioni che hanno già sottoscritto i pre-accordi per le maggiori autonomie. Di conseguenza è impossibile, come spesso affermato, che le maggiori autonomie in sanità possano ridurre le diseguaglianze esistenti.
  • Le maggiori autonomie già richieste da Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto ne potenzieranno le performance sanitarie, indebolendo ulteriormente quelle delle Regioni del Sud, incluse quelle a statuto speciale. Alcuni esempi: la maggiore autonomia in termini di contrattazione del personale provocherà una fuga dei professionisti sanitari verso le Regioni in grado di offrire condizioni economiche più vantaggiose, impoverendo ulteriormente il capitale umano del Mezzogiorno; l’autonomia nella definizione del numero di borse di studio per scuole di specializzazione e medici di medicina generale determinerà una dotazione asimmetrica di specialisti e medici di famiglia; le maggiori autonomie sul sistema tariffario rischiano di aumentare le diseguaglianze nell’offerta dei servizi e favorire l’avanzata del privato. «Ecco perché suona autolesionistica e grottesca – commenta il Presidente – la posizione favorevole all’autonomia differenziata dei Presidenti delle Regioni meridionali governate dal Centro-Destra, dimostrando che gli accordi di coalizione partitica prevalgono sulla tutela della salute delle persone».
  • L’ulteriore indebolimento dei servizi sanitari nel Mezzogiorno rischia di generare un effetto paradosso nelle ricche Regioni del Nord che, per la grave crisi di sostenibilità del SSN, non possono aumentare in maniera illimitata la produzione di servizi e prestazioni sanitarie. Di conseguenza un massivo incremento della mobilità verso queste Regioni rischia di peggiorare l’assistenza sanitaria per i propri residenti. «In tal senso una “spia rossa” si è già accesa in Lombardia – commenta il Presidente – che nel 2021 si trova sì al primo posto per mobilità attiva (€ 732,5 milioni), ma anche al secondo posto per mobilità passiva (-€ 461,4 milioni): in altre parole un numero molto elevato di cittadini lombardi va a curarsi fuori Regione».
  • Tutte le Regioni del Mezzogiorno (eccetto la Basilicata) si trovano insieme al Lazio in regime di Piano di rientro, con Calabria e Molise addirittura commissariate, status che impongono una “paralisi” nella riorganizzazione dei servizi. «Contrariamente agli entusiastici proclami sui vantaggi delle maggiori autonomie per il Meridione – spiega Cartabellotta – nessuna Regione del Sud oggi può avanzare richieste di maggiori autonomie in sanità».
  • Il PNRR persegue il riequilibrio territoriale e il rilancio del Sud come priorità trasversale a tutte le missioni. «In tal senso l’impianto normativo del Ddl Calderoli – chiosa il Presidente – contrasta proprio il fine ultimo del PNRR, occasione per il rilanciare il Mezzogiorno, teso ad accompagnare il processo di convergenza tra Sud e Centro-Nord quale obiettivo di crescita economica, come più volte ribadito nelle raccomandazioni della Commissione Europea».

«Al di là di accattivanti slogan e illusori proclami – conclude Cartabellotta – è certo è che l’autonomia differenziata non potrà mai ridurre le diseguaglianze in sanità, perché renderà le Regioni del Centro-Sud sempre più dipendenti dalle ricche Regioni del Nord, le quali a loro volta rischiano paradossalmente di peggiorare la qualità dell’assistenza sanitaria per i propri residenti. Ovvero, l’autonomia differenziata per la materia “tutela della salute” non solo porterà al collasso la sanità del Mezzogiorno, ma darà anche il colpo di grazia al SSN, causando un disastro sanitario, economico e sociale senza precedenti. Stiamo di fatto rinunciando alla più grande conquista sociale del Paese e ad un pilastro della nostra democrazia solo per un machiavellico “scambio di cortesie” nell’arena politica tra i fautori dell’autonomia differenziata e i fiancheggiatori del presidenzialismo. Due riforme che, oltre ogni ragionevole dubbio, spaccheranno l’unità del Paese Italia».

Il Report dell’Osservatorio GIMBE “L’autonomia differenziata in sanità” è disponibile a: www.gimbe.org/autonomia-differenziata


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7 marzo 2024
Allarme medici di famiglia: ne mancano oltre 3.100. Entro il 2026 oltre 11.400 pensionamenti: nelle regioni del Sud le nuove leve non basteranno a rimpiazzarli. Il 47,7% dei medici supera il limite di 1.500 assistiti: in forte crisi accessibilità e qualità dell’assistenza

Secondo quanto riportato sul sito del Ministero della Salute ogni cittadino iscritto al Servizio Sanitario Nazionale (SSN) ha diritto a un medico di medicina generale (MMG) – cd. medico di famiglia – attraverso il quale può accedere a tutti i servizi e prestazioni inclusi nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). Il MMG non è un medico dipendente del SSN, ma lavora in convenzione con l’Azienda Sanitaria Locale (ASL): il suo rapporto di lavoro è regolamentato dall’Accordo Collettivo Nazionale (ACN), dagli Accordi Integrativi Regionali e dagli Accordi Attuativi Aziendali a livello delle singole ASL.

«L’allarme sulla carenza dei MMG – afferma Nino Cartabellotta Presidente della Fondazione GIMBE – oggi riguarda tutte le Regioni ed è frutto di un’inadeguata programmazione che non ha garantito il ricambio generazionale in relazione ai pensionamenti attesi. Così oggi spesso diventa un’impresa poter scegliere un MMG vicino a casa, con conseguenti disagi e rischi per la salute, in particolare di anziani e fragili».

Al fine di comprendere meglio il fenomeno, la Fondazione GIMBE ha analizzato le dinamiche e le criticità insite nelle norme che regolano l’inserimento dei MMG nel SSN e stimato l’entità della carenza attuale e futura di MMG nelle Regioni italiane. «Le nostre analisi – spiega Cartabellotta – sono tuttavia condizionate da alcuni rilevanti ostacoli. Innanzitutto, i 21 differenti Accordi Integrativi Regionali introducono una grande variabilità nella distribuzione degli assistiti in carico ai MMG e ciò può sovra- o sotto-stimare il reale fabbisogno in relazione alla situazione locale; in secondo luogo, su carenze e fabbisogni è possibile effettuare solo una stima media regionale, perché la reale necessità di MMG viene determinata da ciascuna ASL sugli ambiti territoriali di competenza. Infine, i dati ufficiali sugli assistiti in carico ai medici che stanno frequentando il Corso di Formazione Specifica in Medicina Generale non sono pubblicamente disponibili».

 

DINAMICHE E CRITICITÀ

Massimale di assisiti. Secondo quanto previsto dall’ACN, il numero massimo di assistiti di un MMG è fissato a 1.500: in casi particolari può essere incrementato fino a 1.800, numero che talora viene ulteriormente superato attraverso deroghe locali (es. fino a 2.000 nella Provincia Autonoma di Bolzano), o per casi di indisponibilità di MMG oltre che per le scelte temporanee affidate al medico (es. extracomunitari senza permesso di soggiorno, non residenti). Parallelamente, esistono motivazioni che determinano un numero inferiore di assistiti: autolimitazione delle scelte, MMG con ulteriori incarichi (es. la continuità assistenziale) che ne limitano le scelte, MMG che si trovano nel periodo iniziale di attività e/o che esercitano la professione in zone disagiate. «Per ciascun MMG – commenta il Presidente – il carico potenziale di assistiti rispetto a quello reale restituisce un quadro molto eterogeneo: accanto a una quota di MMG “ultra-massimalisti” che sfiora il 50% ci sono colleghi con un numero molto basso di assistiti». I dati forniti dal Ministero della Salute, riferiti all’anno 2022, documentano infatti che su 39.366 MMG il 47,7% ha più di 1.500 assistiti; il 33% tra 1.001 e 1.500 assistiti; il 12,1% da 501 a 1.000; il 5,7% tra 51 e 500 e l’1,5% meno di 51 (figura 1).  In particolare, il massimale di 1.500 assistiti viene superato da più di un MMG su due in Emilia-Romagna (51,5%), Campania (58,4%), Provincia Autonoma di Trento (59,1%), Valle D’Aosta (59,2%), Veneto (64,7%). E addirittura da due MMG su tre nella Provincia Autonoma di Bolzano (66,3%) e in Lombardia (71%) (figura 2). «Questo sovraccarico di assistiti – commenta Cartabellotta – determina inevitabilmente una riduzione della disponibilità oraria e, soprattutto, della qualità dell’assistenza accendendo “spie rosse” su tre elementi fondamentali: la reale disponibilità di MMG in relazione alla densità abitativa, la distribuzione omogenea e capillare sul territorio e la possibilità per i cittadini di esercitare il diritto della libera scelta».

Ambiti territoriali carenti. I nuovi MMG vengono inseriti nel SSN previa identificazione da parte della Regione (o soggetto da questa individuato) delle cosiddette “zone carenti”, ovvero gli ambiti territoriali dove è necessario colmare il fabbisogno e garantire una diffusione capillare dei MMG. Secondo l’ACN per ciascun ambito territoriale può essere iscritto un medico ogni 1.000 residenti o frazione di 1.000 superiore a 500 di età ≥14 anni (cd. rapporto ottimale); è inoltre consentita, tramite gli Accordi Integrativi Regionali, una variazione di tale rapporto fino a 1.300 residenti per medico (+30%).

Anzianità di laurea. «Desta non poche preoccupazioni – commenta Cartabellotta – la distribuzione anagrafica dei MMG: infatti nel 2022 il 72,5% dei MMG in attività aveva oltre 27 anni di anzianità di laurea, con quasi tutte le Regioni del Centro-Sud sopra la media nazionale, anche in conseguenza di politiche sindacali che spesso non hanno favorito il ricambio generazionale». In particolare nella maggior parte delle Regioni meridionali gli MMG con oltre 27 anni di laurea sono più di 3 su 4: Calabria (89,4%), Sicilia (81,7%), Campania (80,7%), Sardegna (79,7%), Molise (78,4%), Basilicata (78,3%), Puglia (78%) (figura 3).

Pensionamenti. Secondo i dati forniti dalla Federazione Italiana dei Medici di Medicina Generale (FIMMG), tra il 2023 e il 2026 sono 11.439 gli MMG che hanno compiuto/compiranno 70 anni, raggiungendo così l’età massima per la pensione, deroghe a parte: dai 21 della Valle D’Aosta ai 1.539 della Lombardia (figura 4).

Nuovi MMG. Il numero di borse di studio ministeriali destinate al Corso di Formazione Specifica in Medicina Generale, dopo un periodo di sostanziale stabilità (2014-2017) intorno a 1.000 borse annue (figura 5), è aumentato raggiungendo un picco nel 2021 (n. 4.332). Tali incrementi sono dovuti sia alle risorse del DL Calabria che negli anni 2019-2022 hanno finanziato ulteriori 3.277 borse, sia a quelle del PNRR che negli anni 2021-2023 hanno finanziato complessivamente 2.700 borse aggiuntive. «Solo attraverso finanziamenti straordinari dunque – chiosa Cartabellotta – è stato possibile coprire il costo delle borse di studio, peraltro non sufficienti a colmare il ricambio generazionale entro il 2026».

STIMA DELLE CARENZE ATTUALI E FUTURE

Per effettuare tali stime sono state utilizzate le rilevazioni della Struttura Interregionale Sanitari Convenzionati (SISAC) al 1 gennaio 2023, più recenti di quelle del Ministero della Salute.

Trend 2019-2022. I dati SISAC documentano una progressiva diminuzione dei MMG in attività: nel 2022 erano 37.860, ovvero 4.149 in meno rispetto al 2019 (-11%) con notevoli variabilità regionali: dal -34,2% della Sardegna al -4,7% del Molise (figura 6).

Numero di assistiti per MMG. Secondo i dati SISAC al 1° gennaio 2023 37.860 MMG avevano in carico oltre 51,2 milioni di assistiti. In termini assoluti, la media nazionale è di 1.353 assistiti per MMG rispetto ai 1.307 del 2022: dai 1.090 della Basilicata ai 1.646 della Provincia Autonoma di Bolzano (figura 7). «Lo scenario reale – precisa Cartabellotta – è molto più critico di quanto lascino trasparire i numeri: infatti, con questo livello di saturazione dei MMG si compromette il principio della libera scelta. Di conseguenza, è spesso impossibile trovare la disponibilità di un MMG vicino a casa, non solo nelle cosiddette aree desertificate (zone a bassa densità abitativa, condizioni geografiche disagiate, rurali e periferiche) dove i bandi per gli ambiti territoriali carenti vanno spesso deserti, ma anche nelle grandi città metropolitane».

Stima della carenza di MMG al 1° gennaio 2023. «In conseguenza delle criticità sopra rilevate – spiega Cartabellotta – è possibile stimare solo il fabbisogno medio regionale di MMG in relazione al numero di assistiti, in quanto la necessità di ciascun ambito territoriale carente viene identificato dalle ASL secondo variabili locali». Se l’obiettivo è garantire la qualità dell’assistenza, la distribuzione capillare in relazione alla densità abitativa, la prossimità degli ambulatori e l’esercizio della libera scelta, non si può far riferimento al massimale delle scelte per stimare il fabbisogno di MMG. Di conseguenza la Fondazione GIMBE, ritenendo accettabile un rapporto di 1 MMG ogni 1.250 assistiti (valore medio tra il massimale di 1.500 e l’attuale rapporto ottimale di 1.000) e utilizzando le rilevazioni SISAC, stima al 1° gennaio 2023 una carenza di 3.114 MMG, con situazioni più critiche nelle grandi Regioni del Nord: Lombardia (-1.237), Veneto (-609), Emilia Romagna (-418), Piemonte (-296), oltre che in Campania (-381) (figura 8).

Stima della carenza di MMG al 2026. Tenendo conto dei pensionamenti attesi e del numero di borse di studio finanziate per il Corso di Formazione in Medicina Generale, è stata stimata la carenza di MMG al 2026, anno in cui dovrebbe “decollare” la riforma dell’assistenza territoriale prevista dal PNRR. Considerando l’età di pensionamento ordinaria di 70 anni e il numero borse di studio messe a bando per gli anni 2020-2023 comprensive di quelle del DL Calabria per cui si sono presentati candidati, nel 2026 il numero dei MMG diminuirà di 135 unità rispetto al 2022, ma con nette differenze regionali (figura 9). In particolare saranno tutte le Regioni del Sud (tranne il Molise) nel 2026 a scontare la maggior riduzione di MMG: Campania (-384), Puglia (-175), Sicilia (-155), Calabria (-135), Abruzzo (-47), Basilicata (-35), Sardegna (-9,) oltre a Lazio (-231), Liguria (-36) e Friuli Venezia Giulia (-22). La stima dell’entità della carenza è condizionata da differenti fattori. In particolare, è sottostimata dall’eventuale scelta dei MMG di andare in pensione prima dei 70 anni, dal numero di borse non assegnate e dall’abbandono del Corso di Formazione in Medicina Generale (almeno 20%). Viene al contrario sovrastimata dall’eventuale decisione dei MMG di prolungare l’attività sino ai 72 anni e dalla possibilità dei medici iscritti al Corso di Formazione in Medicina Generale di acquisire già dal primo anno sino a 1.000 assistiti. Infine – commenta Cartabellotta – tali stime risentiranno del nuovo ACN recentemente sottoscritto, nel quale sono previste varie novità».

«La progressiva carenza di MMG – conclude Cartabellotta – consegue sia ad errori nella pianificazione del ricambio generazionale, in particolare la mancata sincronia per bilanciare pensionamenti attesi e finanziamento delle borse di studio, sia a politiche sindacali non sempre lineari. E le soluzioni attuate, quali l’innalzamento dell’età pensionabile a 72 anni, la possibilità per gli iscritti al Corso di Formazione in Medicina Generale di acquisire sino a 1.000 assistiti e le deroghe regionali all’aumento del massimale, servono solo a “tamponare” le criticità, senza risolvere il problema alla radice. Occorre dunque mettere in campo al più presto una strategia multifattoriale: adeguata programmazione del fabbisogno, tempestiva pubblicazione da parte delle Regioni dei bandi per le borse di studio, adozione di modelli organizzativi che promuovano il lavoro in team, effettiva realizzazione della riforma dell’assistenza territoriale prevista dal PNRR (Case di comunità, Ospedali di Comunità, assistenza domiciliare, telemedicina), accordi sindacali in linea con il ricambio generazionale e la distribuzione capillare dei MMG. Guardando ai numeri, infatti, oltre alle carenze già esistenti, le proiezioni indicano – in particolare per le Regioni del Sud – un ulteriore calo dei MMG nei prossimi anni. Una “desertificazione” che lascerà scoperte milioni di persone, aggravando i problemi per l’organizzazione dell’assistenza sanitaria territoriale e soprattutto per la salute delle persone, in particolare anziani e fragili».


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14 febbraio 2024
Decreto anziani: 14 milioni di persone in attesa del provvedimento, ma non ci sono risorse aggiuntive. Accesso ai servizi socio-sanitari: inaccettabili diseguaglianze tra Nord e Sud.

Si è svolta questa mattina, presso la 10a Commissione Affari sociali, sanità, lavoro pubblico e privato, previdenza sociale del Senato della Repubblica l’audizione della Fondazione GIMBE nell’ambito dell’esame dell’atto del Governo n. 121, “Schema di decreto legislativo recante politiche in favore delle persone anziane”, cd. “Decreto anziani”.

«Lo schema del Decreto anziani predisposto dal Governo – ha esordito Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE – rappresenta indubbiamente un grande passo per rispondere ai bisogni di oltre 14 milioni di persone anziane che, insieme a familiari e caregiver, ogni giorno affrontano difficoltà, disagi e fenomeni di impoverimento economico. Situazioni aggravate dalle enormi diseguaglianze nell’erogazione dei servizi socio-sanitari, sia tra le Regioni, in particolare tra Nord e Sud, sia tra aree urbane e rurali».  

«L’analisi ha riguardato anzitutto il testo dei 42 articoli del Decreto anziani, la relazione illustrativa e la relazione tecnica – ha spiegato Cartabellotta – al fine di identificare la copertura finanziaria delle misure». In sintesi:

  • Per 13 misure si fa riferimento a risorse già stanziate: PNRR Missione 5 e Missione 6, Fabbisogno Sanitario Nazionale, Fondo Nazionale per le Politiche Sociali, Fondo per la non autosufficienza, Fondo per la promozione dell’attività sportiva, Fondo per le politiche della famiglia, Ministero della Salute.
  • Un finanziamento apparentemente aggiuntivo di € 250 milioni per il 2025 e € 250 milioni per il 2026 è previsto solo per la misura “assegno di assistenza”, che sarà destinato all’acquisto di servizi o contratti: badanti, caregiver, strutture per la presa in cura dell’anziano. «Tuttavia dei complessivi € 500 milioni stanziati – ha tenuto a puntualizzare il Presidente – € 150 milioni provengono dalla riduzione del Fondo per le non autosufficienze, € 250 milioni sono a valere sul Programma nazionale “Inclusione e lotta alla povertà 2021-2027” e € 100 milioni a valere sulle disponibilità della Missione 5 del PNRR. In altri termini anche l’assegno di assistenza di fatto viene finanziato con risorse già stanziate su altri capitoli di spesa pubblica».
  • Per tutte le altre misure non sono previsti maggiori oneri per la finanza pubblica.

«Al fine di contestualizzare le misure previste nell’attuale contesto socio-sanitario – ha continuato il Presidente – abbiamo quindi condotto alcune analisi su aspetti epidemiologici, spesa socio-sanitaria e diseguaglianze regionali sui servizi socio-sanitari previsti dal Decreto anziani».

La platea dei destinatari. A beneficiare delle misure previste dal provvedimento sarà il 24% della popolazione residente al 1° gennaio 2023 (dati ISTAT), ovvero 14.181.297, di cui 9.674.627 nella fascia 65-69 anni (cd. anziani) e 4.506.670 di over 80 (cd. grandi anziani).

«Un numero – ha commentato Cartabellotta – che secondo le proiezioni demografiche aumenterà nei prossimi anni, generando un progressivo incremento dei costi socio-sanitari». Infatti, secondo le proiezioni ISTAT al 2050 gli over 65 sfioreranno quota 18,8 milioni (pari al 34,5% della popolazione residente), circa 4,6 milioni in più rispetto al 2022.

I servizi socio-sanitari e la spesa socio sanitaria «Sebbene formalmente inseriti nei Livelli Essenziali di Assistenza – ha spiegato Cartabellotta – le prestazioni di assistenza socio-sanitaria, residenziale, semi-residenziale, domiciliare e territoriale sono finanziate solo in parte dalla spesa sanitaria pubblica. Un’esigua parte viene erogata dai Comuni (in denaro o in natura), mentre la maggior parte è sostenuta tramite provvidenze in denaro erogate dall’INPS». In dettaglio nel 2022, anno più recente per il quale sono disponibili tutti i dati, alla spesa socio-sanitaria è stato destinato un totale di € 44.873,6 milioni, «una cifra totale – ha precisato il Presidente – sulla cui precisione pesano vari fattori: differenti fonti informative con variabile livello di precisione e accuratezza, possibile sovrapposizione degli importi provenienti da fonti differenti». In dettaglio:

  • Le prestazioni di assistenza sanitaria a lungo termine – Long Term Care (LTC) – hanno assorbito una spesa sanitaria di € 16.897 milioni, di cui € 12.834 milioni (76%) finanziati con la spesa pubblica, € 3.953 milioni (23,4%) a carico delle famiglie e € 110 milioni (0,7%) di spesa intermediata. Fonte ISTAT
  • L’INPS ha erogato complessivamente € 25.332,4 milioni, di cui € 14.500 milioni di indennità di accompagnamento, € 3.900 milioni di pensioni di invalidità civile, € 3.300 milioni di pensioni di invalidità e € 2.432,4 milioni per permessi retribuiti secondo L. 104/92. Fonte 19° Rapporto CREA Sanità
  • I Comuni hanno erogato € 1.822,2 milioni, di cui € 1.200 milioni in denaro e € 622,2 milioni in natura. Fonte 19° Rapporto CREA Sanità
  • Il Fondo nazionale per le non-autosufficienze nel 2022 era pari a € 822 milioni. Fonte Servizio Studi – Camera dei Deputati

«Ai quasi € 45 miliardi di spesa socio-sanitaria – ha precisato Cartabellotta – si aggiungono i fondi per la non autosufficienza erogati dalle singole Regioni. Tuttavia su queste risorse non esiste alcuna ricognizione effettuata da enti pubblici o privati e le risorse non sono stanziate in maniera continuativa in quanto i fondi regionali non sono strutturali, fatta eccezione per quello della Regione Emilia-Romagna, che per il 2022 ammonta a € 457 milioni».

Le diseguaglianze regionali nell’accesso ai servizi socio-sanitari. «Il Nuovo Sistema di Garanzia – ha spiegato Cartabellotta – che il Ministero della Salute usa per monitorare gli adempimenti delle Regioni ai Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) dispone tre indicatori CORE sulle misure contenute nel D.lgs». Indicatori su cui le performance regionali documentano enormi diseguaglianze:

  • Persone non autosufficienti di età ≥75 anni in trattamento socio-sanitario residenziale. A fronte di una media nazionale di 40,2 persone per 1.000 abitanti esistono notevoli differenze tra Regioni: da 144,6 persone per 1.000 abitanti nella Provincia autonoma di Trento ai 4,1 nella Campania. In generale, tutte le Regioni del Sud si trovano fondo classifica e nessuna Regione supera i 20 assistiti per 1.000 abitanti. «Ovviamente – commenta Cartabellotta – questo dato è condizionato al ribasso dalla disponibilità di altre forme di assistenza per le persone non autosufficienti, in particolare l’assistenza domiciliare integrata».
  • Cure palliative. L’indicatore definisce il rapporto tra il numero deceduti per tumore assistiti dalla rete di cure palliative sul totale dei deceduti per tumore. A fronte di una media nazionale del 28,4% la variabilità regionale oscilla dai 56,2% del Veneto ai 4,5% della Calabria.

    «Su questo indicatore – commenta Cartabellotta – va segnalato che, secondo i parametri definiti dal Ministero, solo 5 Regioni risultano adempienti: Emilia-Romagna, Liguria, Lombardia, Toscana e Veneto».
  • Assistenza domiciliare integrata (ADI). L’indicatore si concentra sui tutti i pazienti assistiti in ADI e non sugli over 65. Per tale ragione è stato escluso dalla valutazione.

«Considerato che il Decreto anziani fa riferimento ai Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e ai Livelli Essenziali delle Prestazioni Sociali (LEPS) – ha chiosato il Presidente – diventa inderogabile la necessità di colmare inaccettabili divari tra Regioni, in particolare tra il Nord e il Sud del Paese, che saranno inevitabilmente acuiti dall’autonomia differenziata. Diseguaglianze che oggi ledono i diritti civili e la dignità delle persone più deboli e più fragili del Paese. L’assenza di finanziamenti dedicati ai vari interventi fanno, al momento, del Decreto anziani un’eccellente ricognizione di tutte le misure di cui possono beneficiare le persone anziane, ma la cui attuazione è fortemente condizionata, oltre che dall’emanazione di numerosi decreti attuativi, dalle risorse e dalle rilevanti diseguaglianze Regionali».

«La vera sfida che questo provvedimento lancia – ha concluso Cartabellotta – è se il Paese è pronto per istituire un Servizio Socio-Sanitario Nazionale, con relativo fabbisogno finanziario. Sia perché ormai non è più possibile per i pazienti cronici e gli anziani differenziare i bisogni sanitari da quelli sociali, sia perché tutte le erogazioni in denaro disposte dall’INPS non hanno vincolo di destinazione e non vengono sottoposte ad alcuna verifica oggettiva. È cioè impossibile stimare il reale ritorno di salute e di qualità di vita per le persone anziane».


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1 febbraio 2024
COVID, in Italia flop della campagna vaccinale per gli over 60. In Europa peggio di noi solo Grecia e paesi dell’est. Impietoso il confronto tra regioni: al sud coperture irrisorie. Le ragioni del fallimento: sfiducia nei vaccini, criticità organizzative, limitata promozione istituzionale

Il 26 gennaio 2024 l’European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC) ha pubblicato un report per valutare la copertura vaccinale anti-COVID degli over 60 nei paesi europei. Il periodo considerato è compreso tra il 1° settembre 2023 e il 15 gennaio 2024. 6 Paesi su 30 non hanno fornito i dati all’ECDC: Austria, Croazia, Germania, Italia, Lettonia e Svezia.

«Considerato che, inspiegabilmente, il nostro Paese non ha trasmesso i dati richiesti – dichiara Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE – abbiamo realizzato un’analisi indipendente utilizzando i dati nazionali ufficiali sulle coperture per valutare il posizionamento dell’Italia rispetto ai paesi europei inclusi nel report dell’ECDC, oltre che per effettuare un confronto tra le Regioni italiane».

I dati relativi all’Italia sono stati estratti dalla dashboard del Ministero della Salute che riporta le somministrazioni relative alla campagna vaccinale 2023-2024 effettuate a partire dal 26 settembre 2023, dopo l’introduzione dei nuovi vaccini adattati a Omicron XBB.1.5. L’ultimo aggiornamento della platea di riferimento è del 17 febbraio 2023.

COPERTURE VACCINALI: CONFRONTO TRA ITALIA E PAESI EUROPEI

60-69 anni. Nella fascia 60-69 anni, con una copertura nazionale del 5,7%, l’Italia si colloca al 14° posto.  13 paesi hanno raggiunto coperture superiori a quelle dell’Italia: dal 6,6% della Repubblica Ceca al 43,5% della Danimarca. 11 paesi hanno raggiunto invece coperture inferiori alle nostre: dal 5,4% di Cipro allo 0% della Romania (figura 1).

70-79 anni. Nella fascia 70-79 anni, con una copertura nazionale dell’11%, l’Italia è 15a. 14 paesi hanno raggiunto coperture superiori a quelle dell’Italia: dal 13% del Lussemburgo all’80,4% della Danimarca. 10 paesi hanno raggiunto invece coperture inferiori alle nostre: dal 6,9% del Liechtenstein allo 0% della Romania (figura 2).

Over-80. Negli over 80, con una copertura nazionale del 14,4%, l’Italia si posiziona 14a. 13 paesi hanno raggiunto coperture superiori a quelle dell’Italia: dal 15,8% della Repubblica Ceca all’88,2% della Danimarca. 11 paesi hanno raggiunto invece coperture inferiori alle nostre: dal 13,5% dell’Estonia allo 0,01% della Romania (figura 3).

«Le coperture raggiunte in Italia per tutte le fasce di età over 60 anni – commenta Cartabellotta – documentano un sostanziale fallimento della campagna nazionale di vaccinazione anti-COVID-19. I tassi di copertura del 5,7% per la fascia 60-69 anni, dell’11% per la fascia 70-79 anni e del 14,4% per gli over 80 ci collocano solo davanti ai paesi dell’Europa dell’Est (eccetto la Repubblica Ceca che ci precede in tutte le fasce d’età e l’Estonia per i 60-69 e i 70-79 anni), a Grecia, Malta, Liechtenstein e, solo per gli over 80, Cipro. Siamo molto lontani dai risultati raggiunti nei paesi dell’Europa settentrionale, ma anche da Spagna, Portogallo e Francia: paesi dove le coperture per le tre fasce di età documentano campagne vaccinali efficaci per tutti gli over 60, con percentuali di copertura crescenti con la fascia di età».

COPERTURE VACCINALI: CONFRONTO TRA LE REGIONI ITALIANE

60-69 anni. A fronte di una copertura nazionale del 5,7%, 10 Regioni si collocano sopra la media nazionale: dal 5,9% del Piemonte all’11% della Toscana. 11 Regioni si trovano sotto la media: dal 5,6% dell’Umbria allo 0,9% della Sicilia (figura 4).

70-79 anni. A fronte di una copertura nazionale dell’11%, 9 Regioni si collocano sopra la media nazionale: dall’11,5 dell’Umbria al 21,4% della Toscana. 12 Regioni si trovano sotto la media: dal 10,6% del Veneto all’1,8% della Sicilia (figura 5).

Over 80. A fronte di una copertura nazionale del 14,4%, 9 Regioni si collocano sopra la media nazionale: dal 14,6% dell’Umbria al 26,3% della Toscana. 12 Regioni si trovano sotto la media: dal 14% di Veneto e Lazio, all’1,9% della Sicilia (figura 6).

«Le coperture vaccinali per le tre fasce di età nelle Regioni italiane – commenta Cartabellotta – ripropongono la “frattura strutturale” Nord-Sud che caratterizza il nostro Servizio Sanitario Nazionale: le Regioni meridionali non solo si trovano al di sotto della media nazionale, ma sono tutte a fondo classifica con coperture vaccinali simili a quelle dei paesi dell’Europa orientale. Anche i risultati della Toscana, che raggiunge le percentuali più elevate di copertura vaccinale nelle tre fasce di età (rispettivamente 11%, 21,4% e 26,3%), rimangono molto lontani da quelli dei paesi del Nord Europa. Considerata l’efficacia dei vaccini nel prevenire la malattia grave e la mortalità negli anziani e nei fragili, è legittimo ipotizzare che una parte degli oltre 4.000 decessi riportati nel periodo considerato poteva essere evitato, in particolare tra gli over 80».

«L’analisi dei dati relativi alle coperture vaccinali in Italia per gli over 60 e i confronti con il resto dell’Europa – conclude Cartabellotta – documentano un clamoroso flop della campagna vaccinale anti-COVID nella stagione autunno-inverno 2023-2024, nonostante le raccomandazioni della Circolare del Ministero della Salute del 27 settembre 2023 che ha fatto seguito a quella preliminare del 14 agosto 2023. Purtroppo, al fenomeno della “stanchezza vaccinale” e alla continua disinformazione sull’efficacia e sicurezza dei vaccini, si sono aggiunti vari problemi logistico-organizzativi: ritardo nella consegna e distribuzione capillare dei vaccini, insufficiente e tardivo coinvolgimento di farmacie e medici di famiglia, mancata chiamata attiva dei pazienti a rischio, criticità tecniche nei portali web di prenotazione. E se da un lato è evidente che molti di questi problemi dipendono dalle Regioni, come documentato dal gap Nord-Sud, il confronto con i paesi europei inclusi nel report dell’ECDC dimostra che anche le Regioni italiane con i tassi di copertura più elevati sono molto indietro rispetto ai paesi europei dove la campagna vaccinale ha funzionato. Segnale evidente che della campagna vaccinale anti-COVID le Istituzioni centrali hanno parlato poco e “a bassa voce”, peraltro disturbata dal rumore di fondo di quei politici che hanno alimentato la sfiducia nei vaccini per non perdere il consenso della frangia no-vax».


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24 gennaio 2024
PNRR Missione Salute: al 4° trimestre 2023 rispettate tutte le scadenze europee. Centro-Sud in preoccupante ritardo su assistenza domiciliare. Ostacoli all’orizzonte: grave carenza infermieri, ruolo dei medici di famiglia e gap Nord-Sud. DdL Calderoli in direzione opposta all’obiettivo del PNRR di ridurre le diseguaglianze

«Nell’ambito delle attività del nostro Osservatorio sul Servizio Sanitario Nazionale – dichiara Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE – nel 2023 abbiamo avviato il monitoraggio indipendente dello status di avanzamento della Missione Salute del PNRR, al fine di fornire un quadro oggettivo sui risultati raggiunti, di informare i cittadini ed evitare strumentalizzazioni politiche».

STATO DI AVANZAMENTO AL 31 DICEMBRE 2023

Monitoraggio del Ministero della Salute. Secondo i dati resi pubblici il 23 gennaio 2024 sul portale del Ministero della Salute che monitora lo stato di attuazione della Missione Salute del PNRR:

  • Milestone e target europei: con il raggiungimento del target “Almeno un progetto di telemedicina in ogni Regione”, sono state rispettate tutte le scadenze fissate per gli anni 2021-2023.
  • Milestone e target nazionali: «Traguardi e obiettivi nazionali – spiega Cartabellotta – sono step intermedi che non condizionano l’erogazione dei fondi da parte dell’Europa, ma che richiedono un attento monitoraggio perché potrebbero compromettere le correlate scadenze europee». Sono stati raggiunti entro le scadenze fissate tutti quelli previsti nel 2021 e 2022. Relativamente al 2023, sono stati differiti tre target: da giugno 2023 a giugno 2024 la “Stipula di un contratto per gli strumenti di intelligenza artificiale a supporto dell'assistenza primaria” e la “Stipula dei contratti per la realizzazione delle Centrali Operative Territoriali”. Un ulteriore target - “Nuovi pazienti che ricevono assistenza domiciliare (prima parte)” - era già stato differito di 12 mesi: da marzo 2023 a marzo 2024 (tabella 1).

«Al momento i ritardi sulle scadenze nazionali non sono particolarmente critici – commenta Cartabellotta – fatta eccezione per i “Nuovi pazienti che ricevono assistenza domiciliare (prima parte)”. In dettaglio, entro marzo 2023 avrebbero dovuto essere assistiti in ADI 296 mila pazienti over 65, una scadenza slittata di 12 mesi per le enormi differenze regionali nella capacità di erogare l’assistenza domiciliare, ambito in cui il Centro-Sud era già molto indietro». Infatti, secondo quanto previsto dal Decreto del Ministero della Salute del 13 marzo 2023 per assistere almeno il 10% della popolazione over 65 in ADI il PNRR si pone l’obiettivo di aumentare il numero delle persone prese in carico passando dagli oltre 640 mila del dicembre 2019 a poco meno di 1,5 milioni nel 2026, per un totale di oltre 808 mila persone in più. «Tuttavia – spiega Cartabellotta – se da un lato è realistico il raggiungimento del target nazionale, dall’altro è molto più difficile colmare i divari regionali. Infatti, se Emilia-Romagna, Toscana e Veneto per raggiungere il target 2026 devono aumentare i pazienti assistiti in ADI rispettivamente del 35%, del 42% e del 50%, in alcune Regioni del Centro-Sud i gap sono abissali: la Campania deve incrementarli del 294%, il Lazio del 317%, la Puglia del 329% e la Calabria addirittura del 416%» (tabella 2).

RISORSE ASSEGNATE E SPESE EFFETTUATE. Secondo la memoria dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio (UDP) sulla base delle informazioni della piattaforma ReGiS di monitoraggio del PNRR - aggiornate al 26 novembre 2023 - la Missione 6 Salute si caratterizza per un insolito paradosso, di cui è difficile comprendere le motivazioni. Da un lato si registra un’elevata percentuale di risorse assegnate ai progetti (83,6%); dall’altro emerge che la Missione Salute è quella con la percentuale più bassa (1%) delle risorse spese, rispetto al 20% della Missione 1, al 19% della Missione 2, al 18% della Missione 3, al 7% della Missione 5, e al 5% della Missione 4.

RIMODULAZIONE MISSIONE 6 SALUTE. In occasione del monitoraggio trimestrale dello stato di avanzamento della Missione 6 Salute del PNRR è utile ricordare le principali variazioni che la proposta di rimodulazione approvata il 24 novembre 2023 dalla Commissione Europea prevede rispetto al piano originale.

  • Riduzione di Case della Comunità (-312), Centrali Operative Territoriali (-120) e Ospedali di Comunità (-74) e interventi di antisismica (-25) secondo criteri di distribuzione regionale al momento non noti. «Se ad essere espunte saranno le strutture da realizzare ex novo – spiega Cartabellotta – ad essere penalizzate saranno prevalentemente le Regioni del Centro-Sud». Secondo le dichiarazioni pubbliche le strutture espunte dovrebbero essere realizzate con le risorse del programma di investimenti in edilizia sanitaria e ammodernamento tecnologico (ex art. 20 L. 67/1988) non spese dalle Regioni. «Tuttavia – precisa il Presidente – se da un lato le Regioni hanno già espresso le loro perplessità in merito all’utilizzo di tali fondi, dall’altro il documento approvato dalla Commissione Europea li cita solo per compensare gli investimenti relativi all’antisismica».
  • Aumento del numero di persone over 65 da prendere in carico in assistenza domiciliare (da almeno 800 mila a 842 mila) – di cui non è ancora disponibile la ripartizione per Regioni – e del numero di pazienti assistiti in telemedicina (da almeno 200 mila a 300 mila).
  • Riduzione dei posti letto di terapia intensiva (-808) e semi-intensiva (-995). 
  • Differimento temporale del target relativo all’attivazione delle Centrali Operative Territoriali dal 30 giugno 2024 al 31 dicembre 2024 (+6 mesi) e, soprattutto, all’installazione delle grandi apparecchiature dal 31 dicembre 2024 al 30 giugno 2026 (+18 mesi).

Formalmente, al 31 dicembre 2023 le scadenze europee sul PNRR che condizionano il pagamento delle rate sono state tutte rispettate. E delle scadenze nazionali l’unica da “attenzionare”, tra le tre differite, riguarda l’assistenza domiciliare negli over 65.  Tuttavia, commenta il Presidente «effettuata la “messa a terra” della Missione Salute, il rispetto delle scadenze successive sarà condizionato soprattutto dalle criticità di attuazione del DM 77 nei 21 servizi sanitari regionali, legate sia alle figure chiave del personale sanitario coinvolte nella riorganizzazione dell’assistenza territoriale, sia alle enormi differenze regionali, che rischiano di essere amplificate dall’autonomia differenziata».

Innanzitutto, la gravissima carenza di personale infermieristico: gli ultimi dati relativi al 2021 documentano un numero di infermieri in Italia pari a 6,2 per 1.000 abitanti, rispetto alla media OCSE di 9,9, con rilevanti differenze tra Regioni che penalizzano prevalentemente quelle del Centro-Sud sottoposte a Piano di Rientro (figura 1). Una carenza che stride con il fabbisogno stimato da Agenas per attuare il DM 77: un range da 19.450 a 26.850 infermieri. In secondo luogo, il limbo in cui rimangono le modalità di coinvolgimento dei medici di famiglia nelle Case della Comunità. Infine, tutte le differenze regionali che, oltre alla già citata ADI, riguardano i modelli organizzativi dell’assistenza territoriale, la dotazione iniziale di Case della comunità e Ospedali di comunità e l’attuazione del fascicolo sanitario elettronico. Ma soprattutto, continua Cartabellotta «l’esigibilità dei miglioramenti organizzativi e dei nuovi servizi da parte dei cittadini si allontana anche per la rimodulazione al ribasso e lo slittamento di 18 mesi della scadenza per rinnovare le grandi apparecchiature, peraltro motivato da criticità minori, quali lo smaltimento delle vecchie apparecchiature e l’adeguamento dei locali».

«La Missione Salute del PNRR – conclude Cartabellotta – rappresenta una grande opportunità per potenziare il SSN, ma la sua attuazione deve essere sostenuta da azioni politiche. Innanzitutto, per attuare la riorganizzazione dell’assistenza territoriale servono coraggiose riforme, finalizzate in particolare a definire il ruolo e responsabilità dei medici di famiglia; in secondo luogo, urgono interventi straordinari per reclutare in tempi brevi il personale infermieristico, oltre a investimenti certi e vincolati per il personale sanitario dal 2027; infine, occorre supportare le Regioni meridionali per colmare i gap esistenti con il Nord. In tal senso, va in “direzione ostinata e contraria” l’intero impianto normativo del Ddl Calderoli che contrasta il fine ultimo del PNRR, sottoscritto dall’Italia e per il quale abbiamo indebitato le future generazioni. Ovvero perseguire il riequilibrio territoriale e il rilancio del Sud come priorità trasversale a tutte le missioni per rilanciare il Mezzogiorno, accompagnando il processo di convergenza tra Sud e Centro-Nord quale obiettivo di crescita economica, come più volte ribadito nelle raccomandazioni della Commissione Europea».


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16 gennaio 2024
Nel 2021 cresce la migrazione sanitaria: un fiume da € 4,25 miliardi scorre verso le regioni del Nord. A Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto il 93,3% del saldo attivo. Il 76,9% del saldo passivo grava sul Centro-Sud. Delle prestazioni ospedaliere e ambulatoriali erogate in mobilità oltre 1 euro su 2 va nelle casse del privato. L’autonomia differenziata è uno schiaffo al meridione: il Sud sarà sempre più dipendente dalla sanità del Nord.

Nel 2021, la mobilità sanitaria interregionale in Italia ha raggiunto un valore di € 4,25 miliardi, cifra nettamente superiore a quella del 2020 (€ 3,33 miliardi), con saldi estremamente variabili tra le Regioni del Nord e quelle del Sud. Il saldo è la differenza tra mobilità attiva, ovvero l’attrazione di pazienti provenienti da altre Regioni, e quella passiva, cioè la “migrazione” dei pazienti dalla Regione di residenza. Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto – Regioni capofila dell’autonomia differenziata – raccolgono il 93,3% del saldo attivo, mentre il 76,9% del saldo passivo si concentra in Calabria, Campania, Sicilia, Lazio, Puglia e Abruzzo. «La mobilità sanitaria – spiega Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE – è un fenomeno dalle enormi implicazioni sanitarie, sociali, etiche ed economiche, che riflette le grandi diseguaglianze nell’offerta di servizi sanitari tra le varie Regioni e, soprattutto, tra il Nord e il Sud del Paese. Un gap diventato ormai una “frattura strutturale” destinata ad essere aggravata dall’autonomia differenziata, che in sanità legittimerà normativamente il divario Nord-Sud, amplificando le inaccettabili diseguaglianze nell’esigibilità del diritto costituzionale alla tutela della salute».

Ecco perché, in occasione dell’avvio della discussione in Aula al Senato del DdL Calderoli, continua Cartabellotta, «la Fondazione GIMBE ribadisce quanto già riferito nell’audizione in 1a Commissione Affari Costituzionali del Senato: la tutela della salute deve essere espunta dalle materie su cui le Regioni possono richiedere maggiori autonomie». Numerose le motivazioni:

  • Il Servizio Sanitario Nazionale attraversa una gravissima crisi di sostenibilità e il sotto-finanziamento costringe anche le Regioni virtuose del Nord a tagliare i servizi e/o ad aumentare le imposte regionali. In altri termini non ci sono risorse da mettere in campo per colmare le diseguaglianze in sanità.
  • Il DdL Calderoli rimane molto vago sulle modalità di finanziamento, oltre che sugli strumenti per garantire i Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) secondo quanto previsto dalla Carta Costituzionale.
  • Il gap in sanità tra Regioni del Nord e del Sud è sempre più ampio, come dimostrano i dati sugli adempimenti ai Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e quelli sulla mobilità sanitaria qui riportati.
  • Le maggiori autonomie già richieste da Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto potenzieranno le performance di queste Regioni e, al tempo stesso, indeboliranno ulteriormente quelle del Sud, anche quelle a statuto speciale. Un esempio fra tutti: una maggiore autonomia in termini di contrattazione del personale, rischia di provocare una fuga dei professionisti sanitari verso le Regioni in grado di offrire condizioni economiche più vantaggiose.
  • Le Regioni del Sud non avranno alcun vantaggio: essendo tutte (tranne la Basilicata) in Piano di rientro o addirittura commissariate come Calabria e Molise, non avrebbero nemmeno le condizioni per richiedere maggiori autonomie in sanità.
  • Il Paese, indebitando le future generazioni, ha sottoscritto il PNRR che ha come obiettivo trasversale a tutte le missioni proprio quello di ridurre le diseguaglianze regionali e territoriali.

«In tal senso – chiosa Cartabellotta – risulta ai limiti del grottesco la posizione dei Presidenti delle Regioni meridionali governate dal Centro-Destra, favorevoli all’autonomia differenziata. Una posizione autolesionistica che dimostra come gli accordi di coalizione partitica prevalgano sugli interessi della popolazione».

Il Report sulla mobilità sanitaria 2021 elaborato dalla Fondazione GIMBE ha utilizzato i dati economici aggregati per analizzare mobilità attiva, passiva e saldi, e i flussi trasmessi dalle Regioni al Ministero della Salute per analizzare la differente capacità di attrazione delle strutture pubbliche e private di ogni Regione per le differenti tipologie di prestazioni erogate in mobilità.

Nel 2021 il valore della mobilità sanitaria ammonta a € 4.247,29 milioni, cifra ben più elevata del 2020 (€ 3.330,47 milioni), «anno in cui – spiega il Presidente – l’emergenza pandemica COVID-19 ha determinato una netta riduzione degli spostamenti delle persone e dell’offerta di prestazioni ospedaliere e ambulatoriali».

Mobilità attiva. Lombardia (18,7%), Emilia-Romagna (17,4%), Veneto (12,7%) raccolgono quasi la metà della mobilità attiva, un ulteriore 25,6% viene attratto da Lazio (9,5%), Piemonte (6,8%), Toscana (4,9%) e Campania (4,4%). Il rimanente 25,6% della mobilità attiva si distribuisce nelle altre 14 Regioni e Province autonome. «I dati della mobilità attiva – commenta il Presidente – documentano una forte capacità attrattiva delle grandi Regioni del Nord e, con la sola eccezione del Lazio, quella estremamente limitata delle Regioni del Centro-Sud» (figura 1).

Mobilità passiva. 3 Regioni con maggiore indice di fuga generano debiti per oltre € 300 milioni ciascuna: in testa Lazio (12%), Lombardia (10,9%) e Campania (9,3%), che insieme compongono quasi un terzo della mobilità passiva. Il restante 67,9% della mobilità passiva si distribuisce nelle rimanenti 18 Regioni e Province autonome. «I dati della mobilità passiva – commenta Cartabellotta – documentano differenze più sfumate tra Nord e Sud. In particolare, se quasi tutte le Regioni meridionali hanno elevati indici di fuga, questi sono rilevanti anche in 4 grandi Regioni del Nord che presentano un’elevata mobilità attiva. Una conseguenza della cosiddetta mobilità di prossimità, determinata da pazienti che preferiscono spostarsi in Regioni vicine con elevata qualità dei servizi sanitari». In dettaglio: Lombardia (-€ 461,4 milioni), Veneto (-€ 270,3 milioni), Piemonte (-€ 253,7 milioni) ed Emilia-Romagna (-€ 239,5 milioni) (figura 2).

Saldi. «I dati – commenta il Presidente – confermano la “frattura strutturale” tra Nord e Sud, visto che le Regioni con saldo positivo superiore a € 200 milioni sono tutte del Nord, mentre quelle con saldo negativo maggiore di € 100 milioni tutte del Centro-Sud». In dettaglio (figura 3):

  • Saldo positivo rilevante: Emilia-Romagna (€ 442 milioni), Lombardia (€ 271,1 milioni) e Veneto (€ 228,1 milioni)
  • Saldo positivo moderato: Molise (€ 43,9 milioni)
  • Saldo positivo minimo: Piemonte (€ 12,2 milioni), Toscana (€ 9,2 milioni), Provincia autonoma di Trento (€ 1,4 milioni), Provincia autonoma di Bolzano (€ 0,4 milioni)
  • Saldo negativo minimo: Friuli Venezia Giulia (-€ 7,6 milioni), Valle d’Aosta (-€13,6 milioni)
  • Saldo negativo moderato: Umbria (-€ 31,2 milioni), Marche (-€ 38,5 milioni), Sardegna (-€ 64,7 milioni), Liguria (-€ 69,5 milioni), Basilicata (-€ 83,5 milioni)
  • Saldo negativo rilevante: Abruzzo (-€ 108,1 milioni), Puglia (-€ 131,4 milioni), Lazio (-€ 139,7 milioni), Sicilia (-€ 177,4 milioni), Campania (-€ 220,9 milioni), Calabria (-€ 252,4).

Tipologie di prestazioni erogate in mobilità. Complessivamente, l’86% del valore della mobilità sanitaria riguarda i ricoveri ordinari e in day hospital (69,6%) e le prestazioni di specialistica ambulatoriale (16,4%). Il 9,4% è relativo alla somministrazione diretta di farmaci e il rimanente 4,6% ad altre prestazioni (medicina generale, farmaceutica, cure termali, trasporti con ambulanza ed elisoccorso).

Mobilità verso le strutture private. Oltre 1 euro su 2 speso per ricoveri e prestazioni specialistiche finisce nelle casse del privato: esattamente € 1.727,5 milioni (54,6%), rispetto a € 1.433,4 milioni (45,4%) delle strutture pubbliche. In particolare, per i ricoveri ordinari e in day hospital le strutture private hanno incassato € 1.426,2 milioni, mentre quelle pubbliche € 1.132,8 milioni. Per le prestazioni di specialistica ambulatoriale in mobilità, il valore erogato dal privato è di € 301,3 milioni, quello pubblico di € 300,6 milioni (figura 4). «Il volume dell’erogazione di ricoveri e prestazioni specialistiche da parte di strutture private – spiega Cartabellotta – varia notevolmente tra le Regioni ed è un indicatore della presenza e della capacità attrattiva delle strutture private accreditate, oltre che dell’indebolimento di quelle pubbliche». Infatti, accanto a Regioni dove la sanità privata eroga oltre il 60% del valore totale della mobilità attiva – Molise (90,5%), Puglia (73,1%), Lombardia (71,2%) e Lazio (64,1%) – ci sono Regioni dove le strutture private erogano meno del 20% del valore totale della mobilità: Valle D’Aosta (19,1%), Umbria (17,6%), Sardegna (16,4%), Liguria (10%), Provincia autonoma di Bolzano (9,7%) e Basilicata (8,6%) (figura 5).

«Le nostre analisi – conclude Cartabellotta – dimostrano che i flussi economici della mobilità sanitaria scorrono prevalentemente da Sud a Nord, in particolare verso le Regioni che hanno già sottoscritto i pre-accordi con il Governo per la richiesta di maggiori autonomie. E che oltre la metà del valore delle prestazioni di ricovero e specialistica ambulatoriale vengono erogate dal privato accreditato, ulteriore segnale d’indebolimento della sanità pubblica. Questi dati, insieme a quelli sull’esigibilità dei LEA, confermano un gap enorme tra il Nord e il Sud del Paese, inevitabilmente destinato ad aumentare se verranno concesse maggiori autonomie alle più ricche Regioni settentrionali. Ecco perché la Fondazione GIMBE, all’avvio della discussione in Senato del DdL Calderoli, ribadisce la richiesta di espungere la tutela della salute dalle materie su cui le Regioni possono richiedere maggiori autonomie. Perché, se così non fosse, la conseguenza sarebbe la legittimazione normativa della “frattura strutturale” Nord-Sud, che compromette l’uguaglianza dei cittadini nell’esercizio del diritto costituzionale alla tutela della salute, aumenta la dipendenza delle Regioni meridionali dalla sanità del Nord e assesta il colpo di grazia al Servizio Sanitario Nazionale».

Il report dell’Osservatorio GIMBE “La mobilità sanitaria interregionale nel 2021” è disponibile a: www.gimbe.org/mobilita2021


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11 gennaio 2024
Società scientifiche al fianco del Servizio Sanitario Nazionale: ai nastri di partenza il protocollo d’intesa GIMBE-FISM

La Fondazione GIMBE e la Federazione delle Società Medico-Scientifiche Italiane (FISM) hanno siglato un Protocollo d'intesa col quale prendono il via numerose attività. GIMBE e FISM collaboreranno reciprocamente, nell’ambito delle proprie competenze istituzionali, con l’obiettivo di:

  • Fornire ai referenti FISM per le politiche sanitarie la conoscenza degli strumenti di finanziamento, programmazione e valutazione dei servizi sanitari.
  • Realizzare uno statement da presentare agli stati generali delle società scientifiche.
  • Pubblicare report indipendenti su temi di interesse comune: ricerca clinica, competence professionale, fabbisogno di specialisti, multidisciplinarietà.
  • Promuovere attività destinate ai giovani delle società scientifiche affiliate a FISM.
  • Collaborare con le società affiliate alla FISM per garantire:
    • formazione degli affiliati, grazie al programma GIMBEducation;
    • standard metodologici per l’elaborazione di linee guida e buone pratiche, secondo quanto previsto dal Sistema Nazionale Linee Guida;
    • nuove opportunità ai giovani professionisti sanitari, grazie al programma GIMBE4young.

«L'accordo tra FISM e GIMBE – commenta il Prof. Loreto Gesualdo, Presidente FISM – si concentrerà sulla cooperazione per sviluppare la conoscenza tra le società scientifiche degli strumenti di finanziamento, programmazione e valutazione dei servizi sanitari, finalizzati al miglioramento della qualità dell'assistenza. L'obiettivo è la creazione di report indipendenti su temi di reciproco interesse e la promozione di attività destinate in particolare a giovani specialisti. Inoltre, vogliamo facilitare iniziative multidisciplinari ed applicare standard metodologici per l'elaborazione di linee guida per la pratica clinica. Tutto ciò è finalizzato alla salvaguardia del Servizio Sanitario Nazionale e alla tutela della salute dei cittadini».

«Siamo fiduciosi – dichiara il Dott. Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione GIMBE – che in un momento particolarmente critico per il Servizio Sanitario Nazionale, dalla collaborazione tra GIMBE e le società scientifiche affiliate a FISM possano emergere soluzioni innovative per rivalutare il ruolo della ricerca clinica, per definire gli standard assistenziali più appropriati tramite linee guida e buone pratiche, per mettere a punto strumenti per valutare la competence professionale e stimare il fabbisogno di specialisti».


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Pagina aggiornata il 22/06/2022